Sono le due di notte di mercoledì otto agosto e Giuliana ed io la stiamo lavando e vestendo. Maura è morta in casa. Non sappiamo fino a che punto il dolore fisico nelle ultime ore l’abbia tormentata. Il respiro rantoloso ed il volto teso lascerebbero intuire una certa sofferenza. Fino a che ha avuto degli sprazzi di coscienza ha però dato segno di tranquillità e persino di gioia di vivere. È vero, la nostra coppia non era del tutto nella norma: la relazione, da molti anni oramai, era caratterizzata dal timbro scherzoso, dall’autoironia bonaria, dal gioco teatrale, e la cosa era continuata durante la malattia. Con noi anche l’oggetto più banale poteva diventare un personaggio vivo, dotato di parola e di una personalità propria. Così anche la stomia per l’urina parlava (con la voce di Maura) manifestando tutta la sua sviscerata ammirazione per me che mi occupavo di pulirla e di cambiarle il sacchetto. Da noi battezzata “Pirlinlin”, per la sua vaga somiglianza ad un minuscolo pene, la stomia scriveva pure al chirurgo dicendogli che “Sono proprio contento che mi hai fatto così bello e anche bravo perché faccio tanta pipì e me lo dicono sempre anche il Marco e la Maura che mi vogliono tanto bene e mi curano. Certe volte quando mi cambiano il vestito per mettermi quello nuovo gli faccio gli scherzi e faccio la pipì quando loro hanno appena finito di pulirmi e così dopo mi devono pulire un'altra volta e io rido perché mi diverto e sono contento. Mi mettono sempre su il vestito trasparente perché io non ho vergogna e poi anche se vengo un po' rosso non si vede perché ero già rosso anche prima.”
Queste amenità un poco demenziali non erano però fini a se stesse, ma accompagnate dalla piena consapevolezza della gravità del male e del fatto che Maura, pur non sapendo esattamente quando, sarebbe morta di tumore. E il male lavorava distruggendo progressivamente le sue facoltà fisiche e intellettuali. I momenti più sconfortanti erano dati dalla presa di coscienza dei passi a ritroso: dalla camminata libera allo spostamento con il bastone, dal passaggio da questo alle stampelle e, per finire, alla carrozzella e al seggiolino elettrico per poter fare le scale.
In quei momenti il tono del dialogo non era più lo scherzo bensì il lavoro di accettazione: “Cara Maura, malgrado tu non sappia più camminare, l’unico sistema per sconfiggere in qualche modo il cancro è quello di vivere ugualmente nello scambio affettivo più stretto, nel cercare di star bene assieme, fino all’ultimo respiro.” E funzionava: Maura riprendeva coraggio e il sorriso!
Ai molti amici che ci facevano visita raccontavamo queste cose, e gli amici partivano dicendoci: “Credevamo di trovarvi disperati e vi abbiamo trovati sereni e pieni di vita: ci avete fatto un grande regalo!” Ed era vero!
Uno di questi cari amici ci aveva raccontato una storiella zen: Un uomo si trova in una radura e vede sopraggiungere una tigre. Scappa. Corre finché trova un terreno molto scosceso, vi si getta e si appende ad un ramo. Vede però che una seconda tigre lo aspetta in fondo. Non sapendo più che fare si guarda attorno e scorge una fragola. La coglie e la mangia: “CHE BUONA!”
È una storia che insegna a cogliere l’attimo presente, malgrado tutto quello che potrà capitare, ed è quello che Maura ed io abbiamo cercato di fare e, in buona parte, siamo riusciti a fare, per merito di entrambi.
Già un anno e mezzo fa, al momento della diagnosi “ …lei ha un tumore alla vescica, grosso, brutto e maligno!”, Maura si è detta: “Per intanto non sono ancora morta, e allora cerco di vivere!” Ed io l’ho assecondata.
Ora, ogni tanto mi prende il magone ma, ripensando ai mesi della malattia, provo anche un senso di forza e di calore perché, a modo nostro, siamo riusciti a ingannare il cancro.
Marco
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Pirlinlin
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Mi sveglio chiedendomi il significato della parola “ippopodromo”, se è un ippodromo per ippopotami da corsa o un aerodromo per ippopotami volanti.
La domanda me l'aveva posta Maura, in sogno. Si era divertita con i giochi di parole, con la comicità demenziale, come usava fare da viva.
Quello del sogno è uno dei modi in cui la sento presente, modo che mi fa star bene, perché in esso Maura è quasi reale.
Poi la ricordo mentre, fisicamente molto provata dalla malattia, aveva una grande voglia di vita e, seduti sulla panchina, ci accarezzavamo guardando l'imbrunire e gustando l'aria che, a sera, si faceva meno afosa. In quei momenti ogni istante ci pareva eterno e precario al contempo.
Sapevamo che l'attendeva la fine, ma eravamo lo stesso felici.
Ci stavamo insegnando a vicenda che la vita va colta e gustata a ogni istante, senza badare al fatto che stia o meno per finire.
A un anno dalla sua scomparsa, di questo insegnamento continuo a fare tesoro, apprezzando ogni momento con la consapevolezza che potrebbe anche essere l'ultimo. Sia che mi trovi da solo o in compagnia.
La compagnia: una cosa che Maura, nelle ultime settimane di vita, aveva fortemente voluto. Le porte della nostra casa erano rimaste spalancate, concretamente, e lei si era intrattenuta con grande piacere con moltissimi amici, che riusciva a far ripartire con l'animo sollevato, pur sapendo che il cancro l'avrebbe presto stroncata.
Anche di questo principio ho fatto tesoro, rimanendo in contatto con gli amici miei e suoi, coltivando e approfondendo relazioni, allontanando così la possibile depressione.
Maura non è più la ragione dei momenti di tristezza ma ne è piuttosto il conforto.
Un anno dopo la sua morte la mia vita assomiglia un po' a quell'atmosfera meno afosa che gustavamo all'imbrunire, seduti sulla panchina a fermare il tempo.
Il pensiero della morte è presente e, abituato come sono ad “essere vivo”, sa di strano.
Però non fa paura.
Marco
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