Lì, accanto a me - L'omaggio a Maura di "Yasmine"
Sentivo il caldo torrido e colloso d’inizio agosto, quel giorno. Un pomeriggio denso e umido come tanti altri ce n’erano stati in precedenza, e come ancora ce ne saranno.
Lì, seduta in quella stanza, la osservavo: la luce soffusa che filtrava attraverso le imposte semichiuse delle due finestre mi permetteva di guardare senza essere accecata, e rivestiva ogni mobile ed oggetto di un velo di chiarore che mi permetteva di distinguere ancora molto bene le varie forme e persino i colori.
Su tutto il lato destro del locale, dove stavano le due finestre, c’erano ancora i due lunghi tavoli da disegno, che facevano da scrivanie e da mensole per computer, incarti, telefoni e tanti altri strumenti da lavoro. Sul lato opposto, una piccola combinazione da cucina che però era oramai seminascosta dalle molte pile di vestiti e da scatole di plastica trasparenti contenenti medicine, bendaggi ed articoli da toeletta. In faccia a me, vedevo delle mensole murali in legno piene zeppe di libri e statuine, rivestite di tappetini in stoffa e di decorazioni calde e colorate. Tutt’attorno, appese alle pareti, troneggiavano le sue collezioni di spille e di collane che Marco, con tanta dedizione, aveva provveduto ad appendere ad una ad una con dei chiodi, qualche settimana prima, e che conferivano a quel locale una nota di freschezza e di esotismo. Voglia e nostalgia di viaggi fatti e vissuti per davvero, di un passato che certo era passato, ma che non per questo era stato dimenticato, anzi: era diventato un appiglio ed uno sprone, una fonte di ottimismo e di fiducia dove attingere quando le forze le mancavano, e quando la disperazione la faceva da padrone. Quel passato ora stava lì, in quella stanza, assieme a me che lo respiravo. E che ne godevo, grata e beata.
Quell’istante mi era parso durare in eterno. Era denso e quasi silenzioso, e ciò mi permetteva di assaporare il suo candore e la sua semplice bellezza, coccolata dal ritmo lento e discreto delle pale di quel ventilatore da parete che, senza dire nulla a nessuno, aveva continuato a roteare per tutto quel tempo, e pure dopo.
Sapeva di legno, quel locale. Di corda, di carta e di matite. Di cultura, di arte e d’amore. E soprattutto di Casa. Sapeva di una vita vissuta per davvero, fino all’ultimo respiro. Ed anche un po’ piu’ in là.
Mi ero alzata piano dal mio posto ed ero rimasta ferma al centro di quella stanza, ai piedi di quel letto d’ospedale che l’aveva vista soffrire ma anche gioire, e che l’aveva accolta anche nel suo ultimo respiro, assistita dai suoi cari.
Mentre osservavo quel materasso bianco e vuoto, la sentivo accanto a me. Avevo allora osato pronunciare qualche parola ad alta voce come per parlarle. Ma piano, non si sa mai che qualcuno avrebbe potuto sentirmi. Sì, lo so, in fondo era soltanto un mio timore che qualcuno, in un momento di scomoda impertinenza, si fosse permesso di entrare in quella stanza e di infierire in quell’istante di dialogo privilegiato con lei. Un timore però infondato, perché la metà della gente che era passata per salutarla era ormai rientrata a casa sua. Mentre l’altra metà, esclusa ovviamente la sottoscritta, se ne stava all’esterno della casa a conferire con un Marco stanco e commosso.
Avevo appoggiato le mie mani su quel letto, e le avevo detto grazie. Grazie di avermi accompagnata sul mio cammino, che in fondo era stato un po’ anche il suo. Grazie di esserci stata e di esserci ancora. Lì, in quella stanza, accanto a me.
E, da quel momento in poi, anche dentro il mio cuore.
Grazie, Maura.
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Il sogno del caffè
Normal;Karim stamattina si é svegliato presto. Alle sei, mi sa. E comunque prima delle sei e mezza. Lo so perché ho appena sbirciato sulla sveglia, e indica le sette meno un quarto.
Sono nel mio letto, mi giro e mi rigiro- ma neppure troppo spesso, fa un gran caldo. Cerco a stento di rientrare in uno stato di torpore che però, lo sento bene, mi sa proprio che stavolta non ritrovo. Non mi arrabbio, sono in ferie.
Sono pure un po’ stordita: la mia notte è stata breve e frammentata- poco meno di tre ore di riposo, dalla una alle quattro meno dieci, e tra l’altro un sonno vago ed agitato. Forse per la luna piena, o magari per il cuore frantumato. Beh, succede.
Nel torpore dei miei sensi e dei pensieri, alle quattro sono uscita dal mio letto, per andare alla toilette. Fatto quello, ho tirato come sempre verso destra, dove c’è la mia cucina. Per scolarmi un bel bicchiere d’acqua fredda col limone.
Terza tappa e deviazione necessaria, ero andata a spalancare la finestra del balcone, cioè l’unica che ho, per permettere ad un filo di frescura mattutina di istallarsi tra i miei spazi un po’ affannosi. Non lo faccio quasi mai: temo sempre ladri vari e insetti odiosi. E il rumore, che riparte alle sei circa. Ma fa caldo, ed i suoni dall’esterno posso spegnerli coi tappi per le orecchie- quelli tosti, in cera d’api.
Il percorso, per finire, si era chiuso come sempre nel mio letto. Dove il sonno, come detto, non mi era piu’ tornato. Meno male che comunque, forse dato che ero in coma, il mio inconscio era riuscito perlomeno ad infilarsi in uno stato tra la veglia e il dormiveglia: una cosa molto effimera e preziosa, soprattutto in un contesto come questo, di nottata quasi in bianco.
Prezioso, sì. Perché aveva dato corpo a un sogno strano.
Esatto: ho sognato che dovevo rilevare un ristorante,anzi un bar. Mi toccava far la scelta tra due posti un po’ bizzarri, che vedevo illustrati su una lista molto strana che un signore sconosciuto aveva fatto già da tempo. E che ora, per la fretta di concludere l’affare, mi era stata consegnata senza troppa gentilezza. Il perché di quell’urgenza, non l’avevo recepito.
Lui insisteva, che “Ma insomma! Non capisce che cerchiamo proprio lei? E che quindi si decida quale vuole, che informiamo il proprietario, che lo sgombra e lo sistema, e magari le decora anche il bancone”. Già, è vero, perché in fondo in quel momento era inverno- quei lavori normalmente si fan fare in quella fase.
Io però, presa proprio alla sprovvista, stavo lì col foglio in mano e lo fissavo un po’ perplessa, continuando a non capire cosa stesse succedendo.
Per pensare con piu’ calma, mi ero messa un po’ in disparte. Mi scrutavo quella lista attentamente: era piana di parole, di disegni e cifre strane. Eccessivo, mi perdevo. Una scelta complicata.
Sì perché, all’apparenza, il baretto in cima al foglio mi sarebbe anche piaciuto: un locale molto grande, ben tenuto e in stile nuovo. Clientela benestante e in piu’ fedele, e oltretutto si trovava proprio qui, a due passi. Ma in quel troppo di dettagli … non lo so … ci sentivo un tentativo di coprire un grosso neo.
Esatto, mi sapeva di bidone bello e buono, perché a lato c’era scritto “con effetto immediato”, e piu’ sotto “per motivi personali”. Troppo vago, troppo ambiguo.
Oltre a ciò, per dirla tutta, d’improvviso dentro al sogno avevo visto che un tipaccio, anche questo sconosciuto, si era preso il laido lusso di decidere al mio posto, e mi aveva addirittura preparato le valigie a mia insaputa, per potermi trasferire in quel locale senza indugi.
L’altro bar, al contrario, mi era parso piu’ alla mano e piu’ pulito: piccolino, ben tenuto e decorato, con i muri in sasso bianco ed il tetto in cotto scuro. Si trovava sulla costa, a Nord-Ovest della Spagna, in un posto non lontano dal confine con la Francia e il Portogallo. Sulla spiaggia di una baia un po’ discosta ma comunque frequentata, rischiarata e riscaldata da un bel sole, riparata dagli scogli e rinfrescata dalle onde dell’oceano. Un gran posto suggestivo.
Sì, mi ispirava veramente: mi sapeva di avventura senza inganno, di incertezza ma non certo di tormento. C’era scritto molto meno, in confronto al primo bar- e la cosa mi garbava: breve, chiaro ed essenziale. Senza dubbi mascherati, senza loschi malintesi né angherie. C’era solo un problemino- e tra l’altro non da poco: si trovava un po’ lontano.
Un sospiro e un dubbio atroce: ed ora? E se lo prendo? Come faccio, a costruirmi un’altra vita un’altra volta? O magari posso fare avanti e indietro? Sì, ma … quanto tempo ci si impiega?
Troppi dubbi razionali. Per cui ecco, alla fine una risposta non l’avevo, ma una scelta invece sì- una scelta con l’istinto e con il cuore: mi ero scelta proprio quello- l’avventura può iniziare.
Mentre avevo già deciso sul da farsi, mi ero accorta che sul fondo del mio foglio stava scritto che potevo prender tempo e rilevarlo anche piu’ avanti, per esempio in primavera, “le propongo fine aprile, il 28”. Lo sentivo, ho davvero scelto bene.
Il signore, intanto, era lì che mi fissava. Aspettava una risposta.
“Prendo questo”, e additavo sul secondo.
“Lo sapevo! Complimenti per la scelta …”
Poi, d’un tratto, proprio mentre avrei voluto reagire, … paf!, il signore era sparito, e con lui anche la lista, risucchiati nei meandri del mio sogno. Io, invece, ero sempre nella scena, contemplavo la mia scelta e ne ridevo: stavo bene, ero distesa, con il cuore gongolante ed appagato.
Mentre io stavo sognando tutto questo e pian piano riemergevo al mio stato intorpidito delle quattro, so che Karim si era alzato.
Di sicuro, per quel poco che ne so, sarà stato chiuso in bagno a trafficare per un po’. Anzi, aspetta!, mi sa proprio che l’ha fatto veramente:- ho sentito lo sciacquone e il rubinetto poco dopo. Fatto questo, e di ciò ne sono certa, si era quindi trasferito un po’ piu’ in là, in cucina, dove aveva preparato la sua moka bella piena: se ne intende, è Marocchino. Una volta acceso il fuoco ed alzato le serrande, era uscito sul balcone, per concedersi un po’ d’aria.
Mezza sveglia e con gli occhi ancora chiusi, ero sempre nel mio letto. Percepivo come lui quel bel mattino di città, coi suoi suoni e i suoi odori. Mi lasciavo coccolare dal ricordo del mio sogno, dalla bella sensazione di avventura e di calore dentro al petto che sentivo ancora intatta.
Poi, ad un tratto, un richiamo dall’esterno era irrotto nel mio ritmo e l’aveva scombinato: il profumo di caffè.
Un odore maledetto, che ti prende sensi e testa. Che ipnotizza, che ti pare di tornare in certi spazi del tuo tempo che conosci e che vorresti ritrovare a tutti i costi, ma che sai che non puoi farlo. Perché sono dimensioni così brevi che puoi solo percepire, non di certo ricreare.
Dimensioni di abbandono. Nostalgia di un’accoglienza che ti manca. Un bisogno che ti strugge e che conosci, che non vuoi perché fa male, che ti lacera e ti blocca, ma che vuoi perché fa bene. Un bisogno di certezze, di un Amore e di una Casa.
Mi concedo a quello stato, e ci vedo delle scene di ricordi di un passato che ho vissuto. Mi risento come allora, dentro al letto una domenica mattina. Il caffè che cuoce piano e che borbotta nella moka- quella doppia, siamo in due. Il profumo mi raggiunge dentro al letto. Mi riattiva, mi riempie di speranza. So che presto mi alzerò, che faremo colazione senza fretta. Parleremo, o forse no. Penseremo a cosa farne di quel giorno, e degli altri che verranno. Con lo sguardo un po’ assonnato, io magari o starò lì ad ascoltarlo mentre stuzzica con garbo i suoi colleghi, mentre parla e intanto mangia. Starò lì anche a fissarlo, a gioire e a ringraziarlo con lo sguardo per il fatto che ha deciso di dividere quegli attimi con me.
Sì, quei momenti ci son stati per davvero: brevi istanti di pienezza. Senza chiedersi il perché né il per come, con lo sguardo sul presente, che ti senti tanto intenso quanto finto. Perché cambia ad ogni istante.
Apro gli occhi per salvarmi. Guardo l’ora sulla sveglia- fa le sette meno un quarto. Tolgo i tappi dalle orecchie.
Il profumo di caffè è ancora forte, ma la vista degli oggetti attorno a me mi svaga un attimo il pensiero, e mi aiuta a mitigare quel gran vuoto.
Resto ancora lì sdraiata per un po’. Mi rivedo quei momenti condivisi, provo ancora quelle immagini di pace e di accoglienza, e parecchia nostalgia.
Dura tanto, quello stato di dolore, ma lo reggo. Beh, che dire? Oramai ci ho fatto il callo. Mi domando addirittura se il mio sogno di cui sopra sia in rapporto con l’aroma del caffè, ma non trovo una risposta. Perché forse non la voglio.
Karim, lui, nel frattempo è rientrato dentro casa, l’ho sentito. Di sicuro si è gustato il suo caffè seduto al bar che ha in cucina. Quell’odore micidiale, invece, è rimasto sul balcone. E continua a penetrare in casa mia.
Chi lo sa, e se forse l’ha lasciato lì per me …?
Poi, invece, riflettendo …: no, non credo- non mi pare che conosca i miei segreti.
Sta uscendo. Lo capisco dal rumore delle chiavi nella toppa: doppio giro, sopra e sotto, che in tutto fanno quattro. Sta chiamando l’ascensore, io lo seguo con l’udito per un po’, poi sparisce. Ma stasera tornerà, e domani di sicuro si farà un altro caffè appena sveglio. Ma non so se me ne devo rallegrare oppure no.
Ore sette e zero cinque- il caffè si sente sempre, ma piu’ blando- meno male. Sempre a letto, mi riassesto e mi concentro sui rumori provenienti dall’esterno. Sotto casa, c’è un bel mondo che mi aspetta e che mi spetta. C’è una vita variopinta da imbastire e da gustare.
Mi sorrido, poi mi alzo. Vado in bagno, poi in cucina. Dove faccio un bel caffè di quelli seri- con la moka, beninteso- come quelli che fa Karim, il mio caro e disponibile vicino.
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Il parco che sta sotto casa mia
Il parco che sta sotto casa mia è davvero bello.
Mi piace attraversarlo di mattina, quando il sole lo rischiara ancora blando. Quando brilla di rugiada ed esibisce le sue fresche sfumature, tra il verdino e il trasparente. Quando esprime il nuovo giorno coi profumi che tu senti, a quell’ora. Perché sono ancora puri e delicati- soprattutto se la notte precedente è piovuto.
È davvero ben tenuto, come gli altri. Perché qui non si direbbe, ma ci tengono parecchio alla natura, ad offrire spazi pubblici alla gente, e ovviamente a presentarsi come zona urbanizzata ultramoderna ma comunque riguardosa del valore dell’ambiente.
Come gli altri, questo parco ha preso il nome da una stirpe originaria del comune. Nomi strani- come tutto, qui da me.
È un bel prato molto grande e un po’ inclinato, ma non troppo: ci si gioca col pallone, ci si piazza il passeggino e resta fermo. Ci si sdraia e ci si resta.
Quando passo la mattina, pare enorme: ben curato, sobrio e calmo, con degli angoli ombreggiati tra le querce ed i cipressi, che a quell’ora sono sgombri da persone e da rumori. Ha una vita tutta sua, di mattina: si prepara, si ristora, in attesa di famiglie e di bambini che ci corrono per ore, e dei giovani che vanno a farci festa fino a notte. In attesa di chi sta semplicemente in santa pace su una panca, a gustarsi un buon gelato o un buon romanzo. O dei tipi che ci vanno a fare jogging, pranzo o cena.
Siamo a luglio, e la vasca posta al centro è frequentata, ben sfruttata. Col passare delle ore, si riempie di bagnanti che la prendono d’assalto, che si godono uno spazio d’acqua e d’erba.
Verso sera, le famiglie se ne vanno, e chi resta si ritrova a percepirne i veri odori, che si sentono piu’ intensi quando l’afa ci dà tregua, e la brezza ci accarezza.
Quando il sole va a dormire, i nottambuli si istallano nel parco, e si attivano in concerti improvvisati ma comunque contenuti. Meno male.
Io, invece, come detto, preferisco frequentarlo di mattina: lo costeggio o lo attraverso concentrata e rilassata, me lo scruto attentamente. È essenziale: senza fiori, senza addobbi e senza ghiaia. Uno spazio chiaro e libero che adoro, perché ciò mi corrisponde, mi dà linfa e mi rinfranca. Mi permette ad ogni passo di ascoltare sia il mio cuore sia i miei piedi, che procedono sicuri sull’asfalto dei viali. Mi concede di osservarmi e di osservare anche di fuori, di vedere come volano gli uccelli, come fa il vecchio signore sulla panca a ripiegare il suo giornale e ad infilarlo nello zaino. Mi dà modo di sentire le bellezze attorno a me: l’aria tiepida che sfiora ciò che tocca, i rumori della vita che si muove attorno a me con discrezione. Mi permette di dar spazio alle domande, di dar forma alle risposte. Di capire e proseguire.
Quando arrivo in cima al parco e mi ritrovo sulla strada, che lì in faccia ho casa mia, devo quasi riassestarmi per capire che quell’oasi, in fondo, è davvero lì a due passi.
Sembra finto, tutto ciò- ma mi fa davvero bene.
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